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Impossibilità di estendere il fallimento della società di capitali a quella di persone partecipata “di fatto”


Impossibilità di estendere il fallimento della società di capitali a quella di persone partecipata “di fatto”

a cura di Mattia Polizzi

 

Fallimento – Estensione del fallimento – Società di fatto – Società di capitali – Società di persone – Esclusione

(r.d. 16 marzo  1942, n. 267, legge fallimentare, art. 147; cod. civ. art. 2361, 2384)


Il fallimento già dichiarato nei confronti di una società a responsabilità limitata non può essere esteso ad una società in accomandita semplice sulla scorta di un’asserita società di fatto costituita tra le due compagini societarie, posto che la partecipazione di una società di capitali in una di fatto comportante responsabilità illimitata può essere ammessa solo nel caso in cui vengano rispettate le condizioni di cui all’art. 2361 cod. civ. e non anche qualora avvenga per facta concludentia.

CASO

Il curatore del fallimento di una società a responsabilità limitata ne chiede l’estensione, ai sensi dell’art. 147 l. fall., nei confronti di una società in accomandita semplice (nonché del socio accomandatario e dell’accomandante esercente attività di amministrazione), sulla scorta della esistenza di una società di fatto costituita tra le due formazioni societarie. Il socio accomandatario della s.a.s. chiede il rigetto del ricorso contestando la esistenza della società di fatto ed invocando le esimenti di cui all’art. 1 l. fall..

SOLUZIONE

La richiesta di estensione del fallimento viene rigettata, in ragione della non ammissibilità della costituzione per facta concludentia di una società di fatto nella quale partecipino società di capitali e società di persone, pena la violazione del disposto di cui agli artt. 147 l. fall. e 2361 cod. civ..

QUESTIONI

Il Tribunale di Como respinge la richiesta di estensione del fallimento, prendendo così posizione nel dibattito che vede coinvolte diverse Corti di merito, avente ad oggetto la possibilità per una società di capitali di partecipare – tramite comportamenti concludenti – in una società di fatto costituita con una società di persone.

Secondo un primo orientamento, disatteso dal decreto in epigrafe (cfr., solo per citare le pronunce più recenti, Trib. Parma, 13.03.2014, in Il fallimento e le altre procedura concorsuali, 2014, 5, p. 598 e Trib. Bari, ord. 20.11.2013, in Il fallimento cit., 2014, 2, p. 233), sarebbe ammissibile la costituzione di una società di fatto tra società di capitali e di persone, con conseguente estensione dell’ambito di applicazione del disposto di cui al quinto comma dell’art. 147 l. fall..

Secondo una diversa opinione (cfr., ex pluribus, Trib. Foggia, decr. 03.03.2015, in Il fallimento, 2015, 6, pp. 745-746 e Trib. Santa Maria Capua Vetere, decr. 15.01.2015, ivi, p. 746), richiamata dall’ordinanza de qua, detta possibilità deve ritenersi esclusa.

Milita in tal senso, in primo luogo, un argomento di tipo letterale, considerato che il disposto dell’art. 147, V co., l. fall. fa riferimento al solo imprenditore individuale, specificazione che non consentirebbe di parlare di una lacuna involontaria del legislatore, quanto piuttosto di una specifica limitazione all’operatività della norma, secondo il noto brocardo per cui ubi lex voluit dixit, ubi noluit taquit.

L’impostazione condivisa dal decreto in commento risulta poi confortata dal dettato dell’art. 2361 cod. civ., il quale subordina la possibilità di assumere partecipazioni dalle quali derivi una responsabilità illimitata alla previa approvazione di tale operazione ad opera dell’assemblea dei soci, opportunamente informati mediante la nota integrativa del bilancio. Oltre al dato letterale dell’art. 2361 cod. civ. spinge nel senso propugnato dal Tribunale di Como anche la ratio sottesa alla disposizione in parola, tesa da un lato ad evitare che i soci siano esposti – senza averne preventivamente valutato ed accettato il rischio – alla responsabilità illimitata derivante dalla partecipazione nella società di persone e dall’altro a dare maggior tutela al ceto creditorio, in grado di valutare la consistenza patrimoniale della società (eventuale) debitrice anche alla luce di tale partecipazione.

Infine, diversamente opinando, si finirebbe per valorizzare eccessivamente l’operato degli amministratori, posto che la necessità di una previa delibera assembleare all’operazione di partecipazione rappresenterebbe una vera e propria limitazione imposta dalla legge al potere dell’organo amministrativo, limitazione che – argomentando a contrario rispetto all’art. 2384, II co., cod. civ. – sarebbe direttamente opponibile con la conseguenza che la partecipazione assunta in violazione delle tutele di cui all’art. 2361 cod. civ. risulterebbe inefficace.

Tratto da "Legal Euroconference - settimanale sul processo civile"